Un incontro-intervista con Mauro Bini, uno dei miei maestri di vita personale e professionale
Pubblicato il lunedì 19 ottobre 2020 9:35
Nella mia vita professionale ho incontrato tante persone. L’importanza dell’incontro con l’altro è vita, è "arte dell'incontro". Diventa un momento unico e indimenticabile quando nel proprio cammino si incontra qualcuno nel quale si riconosce, nel tempo, il ruolo di "maestro di vita.” Chi mi conosce sa quanto sia importante per me “fare la lista” di coloro che hanno segnato le nostre vite: le persone che ci hanno donato insegnamenti e hanno facilitato la nostra crescita. E la ricerca di nuovi maestri continua sempre, ogni giorno.
Ho avuto la fortuna di lavorare con Mauro dal 1992 al 1998 nel gruppo Franco Tosi. Mi ha cresciuto, guidato, formato ed “educato” a una professione tutt’altro che semplice nel reparto HR. Era il mio “capo”, il mio “responsabile”. Dopo anni, posso affermare d’aver avuto, non solo un superiore, ma un amico, un fratello maggiore e, per certi momenti, anche un padre. Ci siamo sempre tenuti in contatto e ho condiviso con lui anche tanti momenti di vita personale e, ancora oggi, nonostante le distanze, il covid e altre difficoltà, non perdo l’occasione per salutarlo e incontrarlo per parlare con lui e con la sua instancabile e meravigliosa moglie Gemma.
Il reparto HR, fino a qualche decennio fa, assumeva un ruolo marginale nella gestione aziendale. Attualmente, invece, le Risorse Umane assumono un ruolo fondamentale per gli imprenditori che le considerano come tramite tra management e dipendenti e come mezzo per la modernizzazione dei processi aziendali. Come immagina che evolverà la funzione HR nei prossimi anni?
Certo, le HR sono un “tramite” (strategico, direi io) fra management e risorse, soprattutto nella capacità di elaborare un “piano strategico delle risorse” coerente con le più generali strategie aziendali. L’uomo HR però non può essere un ruolo astratto, ma una risorsa che si muove dentro la “contingenza organizzativa” e lo stile “culturale” dell’impresa in cui agisce. Può essere un attore di mutamento solo se è l’impresa che cambia.
Però, e la tiro alla lunga, questa è già da tempo (almeno 40 anni) la funzione di HR “sapienti” e, sottolineo, aziendalmente legittimate. Quello che potenzialmente può essere il futuro dell’uomo di HR ha le sue radici nelle esperienze di quegli anni, almeno nelle aziende più mature.
Il passato ha visto tonalità diverse di uomini del personale:
· il “cane da guardia” nelle piccole dimensioni (di solito retribuzioni estese alla disciplina, permessi e controllo delle regole);
Ad esempio, non aver voluto/saputo cogliere grosse opportunità di carriera per timore di dover rinunciare a mie convinzioni ideal-politiche e di venire assorbito in una logica di completa fedeltà aziendale richiesta dalle posizioni offerte. Logica che psicologicamente non pensavo di poter sostenere. Ognuno ha una sua immagine di sé (e ovviamente i suoi limiti).
E anche, buco assoluto nella Direzione del Personale di una grossa azienda municipalizzata: stritolato dalla cinghia di trasmissione fra partiti (in CdA) e sindacati e da un modello organizzativo strettamente da ente pubblico e non d’azienda come avrebbe dovuto essere. Non ero coerente con quella “contingenza organizzativa”, né come esperienza professionale né come atteggiamenti personali.
Si impara? Mah! Quello che è certo è che gli insuccessi restano inscritti nel vissuto lasciando aperte ansie e interrogativi. Sono anche una occasione di riflessione e di ricerca di una diversa ripartenza evitando di approdare ancora negli scogli dell’errore. Per farlo, ci vuole un certo coraggio, voglia di riconquista e, a volte, una faticosa ricostruzione di una immagine di sé con l’aiuto di buone conoscenze.
E qui veniamo al punto dei “maestri di vita” sia in senso pieno che aziendale. Ne ha avuto bisogno Dante, figuriamoci io.
Ne ho avuto alcuni dalla giovinezza alla maturità (uno sopra tutti) e con ciascuno di loro ho tracciato e fatto percorsi comuni. Sono stati il mio vero patrimonio, maestri di amicizia, di umanità e di competenza. L’insegnamento maggiore che ne ho ricevuto (oltre ai legami durevoli che ancora ci uniscono spesso con affetto) è stato la riflessione pacata, il giudizio equilibrato, la capacità di trovare e saper stare al mio posto. Il principio di realtà, in sintesi. E non fuggire.
Poi ci sono le technicalities e le letture (sociologia dell’organizzazione e psicologia) ma quelle sono un contorno che mi hanno fatto curioso e più competente sotto il profilo professionale.
Ricordo con nostalgia l’ultimo AD francese con il quale si stabilì un legame di collaborazione e fiducia fra uomini.
C’è differenza fra le diverse situazioni. Non esiste un curriculum buono in assoluto per un determinato ruolo. In realtà, il successo di una ricerca dipende dalle richieste del committente aziendale per quel dato ruolo. Nella mia esperienza ho visto candidati perfetti per un ruolo essere rifiutati o perché troppo bravi tecnicamente o per personalità autonoma considerata minaccia per la “contingenza organizzativa” del cliente.
Eterogeneità può significare un percorso di lavoro che ha fatto “scempio” delle qualità di un giovane e allora bisogna prima di tutto ricomporlo, curando un recupero di senso del suo sé come offerta lavorativa perché sappia disegnare orizzonti lavorativi possibili.
Ma può anche significare ricchezza, agilità professionale, capacità di coordinare in filo rosso l’insieme delle esperienze. Elaborazione delle esperienze, presa di realtà, consapevolezza di un proprio disegno professionale rendono l’eterogeneità potenziale ricchezza.
Che importanza assumono le competenze trasversali nella ricerca e nella scelta di un candidato?
Qualora, invece, si intendano doti e caratteristiche della persona (gli atteggiamenti verso, la percezione di sé, il tono culturale, in senso lato), la loro qualità diventa cruciale in caso di ricerca di persona da inserire in contesti organizzativi in mutamento, in situazioni di innovazione tecnica e di prodotto e incertezza dei risultati, dove il modello organizzativo è “loose”, fatto essenzialmente di relazioni trasversali fra persone o di lavoro di gruppo (circolarità dei feedback).
Comunque, il tono delle qualità soft, costituiscono una marcia in più per ogni azienda che non ricerchi puri esecutori di breve respiro.
Oserei un modesto slogan: “formazione al saper fare/ formazione al saper essere”, indistinguibili l’una dall’altra.
Esistono formazione per recuperare competenze e professionalità divenute rare dopo il macello dei vecchi saperi (pensionamenti anticipati, decentramenti fuori paese, licenziamenti di comodo, etc.); formazione a sostegno dei nuovi saperi e tecniche; formazione per reggere il mutamento delle tecnologie e della innovazione produttiva.
È prima di tutto un atteggiamento comportamentale, la consapevolezza di una necessità ineludibile che richiede di essere sostenuto da una precisa coscienza del fenomeno. Viviamo una dinamica di apprendere, dimenticare, apprendere, faticosa dove le certezze di ieri divengono le incertezze di oggi. Per questo serve una formazione mentale al saper essere. Serve il recupero della formazione aziendale, oggetto ormai dimenticato per ragioni di costo o di grossolanità gestionale. È una formazione normalmente di gruppo perché legata ad una visione strategica dei bisogni di know how aziendali.
Da qui l’importanza di una corretta progettazione dei percorsi formativi dove il formatore deve far esplicitare all’azienda le ragioni e gli obiettivi che si prefigge e attende dal processo formativo.
Sul lavoro a domicilio come si va configurando ho grosse incertezze. Certo è libertà individuale ma anche costrizione casalinga dove la disponibilità alla presenza lavorativa si dilata a piacimento dell’azienda. Almeno così so da vissuti raccolti in giro.
Credo che possa valere per lavori ben definiti, normativizzati, ad alta componente di certezza. Per quelli che richiedono intensità di relazioni, forte scambio d’informazioni e presa di decisione penso che almeno una parte di presenza in azienda, di lavoro faccia a faccia, resti comunque necessaria.
Siamo di fronte ad una probabile rivoluzione dei rapporti di lavoro che divengono sempre più individuali e con asimmetria di potere fra i due contraenti. Parlo di rapporti fra azienda e individuo. È diverso per quelli fra gruppi specializzati e azienda, dove la pratica del commissionare progetti o intere funzioni esiste ormai da decenni. È ancora diverso se la pratica del nuovo lavoro a domicilio diventa offerta di lavoro, meglio di prestazioni, di gruppo che stimola forme di imprenditorialità diffuse. In questo caso la relazione di lavoro, fornitura, potrebbe ristabilire una certa equità di scambio fra fornitore e azienda.