Italiani d'Oltremanica - seconda parte: le storie di S., F., e A.

Pubblicato giovedì 13 febbraio 2020 da Sara Bianchin

Prosegue il nostro viaggio tra le storie di vita di alcuni giovani italiani che hanno deciso di trasferirsi in Inghilterra. Questa volta vi presentiamo i racconti di S. e F.

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Italiani d'Oltremanica - seconda parte: le storie di S., F., e A.
Italiani d'Oltremanica - seconda parte: le storie di S., F., e A.

Prosegue il nostro viaggio tra le storie di vita di alcuni giovani italiani che hanno deciso di trasferirsi in Inghilterra. Questa volta vi presentiamo i racconti di S. e F., ragazze molto giovani ma allo stesso tempo determinate e con tanta voglia di fare. Dalle loro parole ci arriva un forte senso di frustrazione per l’impossibilità di attuare il proprio progetto di vita in Italia, ma allo stesso tempo una chiara consapevolezza del fatto che, ad oggi, la direzione intrapresa è quella giusta.

La storia di S.

S. ha 25 anni ed arriva dalla Sicilia (paese preciso non te lo ricordi?). La sua famiglia possiede un concessionario di una nota casa automobilistica, con l’azienda nel bel mezzo del passaggio generazionale. Per far sì che questo avvenga, la ragazza deve dimostrare concretamente di aver appreso la lingua inglese in maniera fluente, così da poter raccogliere l’eredità paterna. Decide allora, 4 anni fa, di trasferirsi a Londra per ampliare il suo bagaglio di competenze linguistiche. Ad oggi, però, le risposte dalla parte opposta sono state poche e confuse, con garanzie minime –se non nulle- di un posto di rilievo anche qualora riuscisse a dimostrare di aver appreso la lingua.

In S., allora, iniziano a nascere due consapevolezze: la prima è quella di poter riuscire difficilmente ad occupare quello specifico ruolo in Italia se non grazie a qualche “spinta” dall’alto. La seconda,  di possedere le competenze per essere in grado di ricoprire quel ruolo, ma in settori e sedi diverse. Lo dimostra il fatto che, dopo questo lasso di tempo, qui a Londra ricopre il ruolo di manager nel campo della ristorazione.

Perché tornare in Italia, allora, se in Inghilterra è riuscita ad ottenere un riconoscimento importante in termini di ruolo e remunerazione grazie soltanto alle proprie forze? L’unica ragione, ci racconta S., per cui desidererebbe tornare nel nostro paese sarebbe soltanto legata alla nostalgia della propria terra.

Nel suo racconto emerge molto forte l’importanza del sistema culturale di riferimento in cui una realtà è inserita che deve essere in grado di saper “leggere” le potenzialità della persona. Spesso, in alcune aziende, per i motivi più disparati, un individuo non riesce a dimostrare a pieno il proprio valore proprio a causa di un setting “vincolante” e che non è in grado di liberare il potenziale delle persone.

Se, in Italia, a tutto questo aggiungiamo la piaga del clientelismo, ecco che la faccenda si complica ulteriormente. Ciò non significa che questo sia solamente un problema italiano, ma certamente tutto il sistema a Londra non risulta essere così bloccato tanto quanto da noi: si avanza di livello in base a ciò che dimostri. In questo modo è possibile attribuire un reale valore non solo alle competenze espresse, ma soprattutto alle possibili aree di miglioramento dell’individuo. Tornare indietro, quindi, avrebbe poco senso.

La storia di F.

F. ha 23 anni ed è nata a Piacenza, studia Storia dell’Arte in Italia e, per mantenersi, lavora nella National Gallery. La sua storia è leggermente diversa dalle altre che abbiamo conosciuto, dal momento che si è trasferita a Londra da pochi mesi soltanto per imparare la lingua: la sua intenzione, infatti, è quella di tornare, anche se emerge sempre più forte in lei il desiderio di fermarsi in Inghilterra anche dopo questo periodo.

Il motivo di tale scelta risiede nel fatto che è riuscita a trovare un’occupazione nel settore in cui ha studiato: in Italia, al contrario, non era stata in grado di trovare il suo spazio. La sua percezione, sebbene sia nella capitale inglese da pochi mesi, è di un ambiente in cui, se si dimostrano sul campo intraprendenza e voglia di fare, si riescano ad ottenere ottimi risultati ed altrettanti riconoscimenti da parte dei superiori e, più in generale, da parte di tutto il sistema lavorativo del settore.

Lo conferma di tutto ciò il fatto che, in pochi mesi, sia riuscita ad ottenere molta fiducia da parte dei responsabili sul lavoro. Questa libertà, ci racconta, in Italia non sarebbe stata possibile: al contrario, avrebbe potuto soltanto osservare senza entrare nel vivo della professione che attualmente svolge.

Da qui, allora, il consueto dubbio che abbiamo riscontrato in tutte le narrazioni: se F. tornasse in Italia, avrebbe la possibilità di esprimersi in questo modo senza dover “fare la fame”? Al momento, secondo la sua impressione, questo non sarebbe possibile.

Quello che ci impressiona maggiormente del racconto di F. è il fatto che, secondo la sua percezione, nel nostro paese, che detiene gran parte del patrimonio artistico mondiale, non ci sia la possibilità di trovare un lavoro in questo settore che permetta di mantenersi ed allo stesso tempo di continuare a studiare.

F., infatti, a Londra sente di poter scoprire maggiormente il mondo dell’arte rispetto a quanto potrebbe fare in Italia.

Questo è senz’altro un elemento sul quale riflettere e che si lega saldamente all’esperienza di S. che abbiamo raccontato poco fa: anche qui, infatti, ritorna forte il tema dell’importanza del setting, dell’ambiente di lavoro, che deve necessariamente liberare il potenziale delle persone e non, al contrario, reprimere la voglia di emergere di una giovane ragazza.

Concedere libertà e saper delegare, infatti, sono competenze molto importanti per far sì che una persona esprima tutto il proprio valore. Questo presuppone, però, uno sguardo pronto a saper leggere le qualità dell’altro, che spesso rimangono nel sottotraccia: un’attitudine, questa, che si sviluppa con il tempo. Non è semplice saper guardare oltre, saper creare un ambiente pronto a far spiccare il volo, con l’obiettivo di valorizzare il talento.

In Italia, nonostante le enormi possibilità in termini di patrimonio artistico, il sogno di F. sembra quasi irrealizzabile.

La storia di A.

La storia di A. non parte dall’Italia, bensì dalla Spagna, precisamente da Valencia. Figlia di seconda generazione con madre rumena e padre spagnolo, dopo essere cresciuta in Spagna, decide di trasferirsi a Londra per sviluppare ancora meglio la sua più grande passione: le lingue. Parlando 4 lingue (rumeno, spagnolo, italiano e inglese) per mantenersi trova lavoro come receptionist in un hotel.

Nel frattempo, però, prosegue i suoi studi: oltre allo studio del francese, frequenta una scuola per diventare hostess di volo sugli aerei, suo più grande sogno che sta cercando, giorno dopo giorno, di far diventare realtà.

Di A. ci ha colpito non solo la sua professionalità, ma anche e soprattutto l’infinita disponibilità con la quale si approccia alla persona: nel suo lavoro, infatti, dimostra una capacità non indifferente di problem solving, una dedizione all’ascolto non comune oltre ad un’attitudine sempre positiva e propositiva nei confronti del cliente. Il suo focus è sempre stato sulla risoluzione del problema, a prescindere dal suo grado di complessità. Insomma, una collaboratrice-modello, per così dire.

Tutto questo ci ha stupido  molto poiché, per lei, questo non sarà “il lavoro della vita.” E’ proprio a questo punto che A. ci racconta un fatto che avevamo già riscontrato, trasversalmente, nella storia di M. (la cui vicenda potete trovare qui LINK ALL’ARTICOLO 1), ma che non ci aspettavamo di ritrovare qui: fin da subito, infatti, la ragazza ha dichiarato al suo capo che quell’occupazione non sarebbe stata per lei un punto d’arrivo ma, al contrario, avrebbe avuto come obiettivo il solo mantenimento. Le sue ambizioni, in ambito professionali, sono sempre state altre (l’hostess di volo, appunto).

Il suo capo, anziché limitarla e “tarpare le ali” al suo sogno, cerca quotidianamente tutti i modi possibili per agevolarla, soprattutto attraverso degli orari di lavoro flessibili e dei turni di lavoro a lei congeniali, così da poterle permettere di studiare. A., dall’altra parte, lo ricambia con un’attenzione quasi maniacale nei confronti della persona.

Questo atteggiamento ci ha fatto pensare a quello che viene chiamato “paradosso educativo”: l’obiettivo di un rapporto educativo, infatti, è proprio quello di rendere la relazione educativa stessa inutile. Se in questo percorso di crea una dipendenza, dall’educando all’educatore o viceversa, questo legame smette di essere tale.

Il rapporto tra A. ed il suo datore di lavoro può essere definito “funzionale” nel senso etimologico del termine, poiché assolve un duplice compito: permette ad A. di mantenersi economicamente, così da poter realizzare i suoi sogni, ma allo stesso tempo permette all’imprenditore di far diventare autenticamente sé stessa una collaboratrice che, in questa libertà, rende al massimo nel suo ruolo.

Molto probabilmente, se tutto questo non le fosse stato permesso, in termini di efficienza ed efficacia la sua “performance” sarebbe stata diversa.

Proprio qui vive e si sviluppa questo paradosso, che esiste anche in ambito lavorativo: permettere ad una giovane ragazza di coltivare la propria passione, a costo di perdere un’ eccellente professionista.

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